La sanificazione, una delle azioni indicate dalla normativa e dai vari “protocolli condivisi” per la gestione dell’emergenza COVID-19, è definita dal DM 7 luglio 1997 n. 274 come quel complesso di procedimenti e operazioni “atti a rendere sani determinati ambienti mediante l’attività di pulizia e/o di disinfezione e/o di disinfestazione ovvero mediante il controllo e il miglioramento delle condizioni del microclima per quanto riguarda la temperatura, l’umidità e la ventilazione ovvero per quanto riguarda l’illuminazione e il rumore”. E dunque la sanificazione “è un ‘complesso di procedimenti e di operazioni’ che comprende attività di pulizia e/o attività di disinfezione che vanno intese ‘come un insieme di attività interconnesse tra di loro’ quali la pulizia e la disinfezione”. In alcuni casi “con la sola pulizia (es. trattamenti con il calore) o con la sola disinfezione è possibile ottenere la stessa efficacia nei confronti dei virus”.
Il trattamento di sanificazione mediante radiazione ultravioletta
Il documento, che costituisce il Rapporto ISS COVID-19 n. 25/2020 ed è curato dal Gruppo di Lavoro ISS Biocidi COVID-19 con la collaborazione di varie altre realtà, si sofferma su varie forme di trattamenti di sanificazione.
Il rapporto si sofferma, ad esempio, sul trattamento mediante radiazione ultravioletta ricordando che la “radiazione UV-C ha la capacità di modificare il DNA o l’RNA dei microorganismi impedendo loro di riprodursi e quindi di essere dannosi. Per tale motivo viene utilizzata in diverse applicazioni, quali la disinfezione di alimenti, acqua e aria. Studi in vitro hanno dimostrato chiaramente che la luce UV-C è in grado di inattivare il 99,99% del virus dell’influenza in aerosol”. Inoltre l’azione virucida e battericida, dei raggi UV-C è stata dimostrata in studi su virus analoghi al MERS-CoV e SARS-CoV-1.
Gli emettitori di radiazioni UV-C che possono avere funzione di pulizia, igienizzazione o disinfezione, “hanno dimostrato che la potenza della luce UV-C e il tempo in cui le superfici sono esposte a questa luce variavano considerevolmente tra i prodotti di pulizia UV-C commercializzati ed in base al design del prodotto. Se le superfici sono esposte a una radiazione UV non sufficientemente intensa, ciò potrebbe comportare una disinfezione inadeguata e conseguenti problemi di sicurezza e prestazioni”.
In ogni caso bisogna ricordare che la radiazione UV-C “può essere utilizzata in sicurezza in sistemi chiusi per disinfettare le superfici o gli oggetti in un ambiente chiuso in cui la luce UV non fuoriesce all’esterno”, ma “i sistemi tradizionali con lampade UV-C installate a parete o a soffitto che generano luce UV-C in assenza di protezione dell’utente dall’esposizione, rappresentano un potenziale pericolo in funzione della lunghezza d’onda, dell’intensità e della durata di esposizione, in considerazione del fatto che la radiazione UV-C di per sé non può essere percepita dall’essere umano in quanto non dà alcuna sensazione termica e non è visibile”. La radiazione UV-C “nell’intervallo 180 nm 280 nm è in grado di produrre gravi danni ad occhi e cute. Inoltre la radiazione UV-C è un cancerogeno certo per l’uomo per tumori oculari e cutanei (Gruppo 1 A IARC)”.
In questo senso l’impiego di tali sistemi è “disciplinato dal DL.vo 81/2008 Titolo VIII Capo V che prescrive l’obbligo di valutazione del rischio per le sorgenti di radiazioni ottiche artificiali e fissa specifici valori limite di esposizione per la prevenzione degli effetti avversi su occhi e cute derivanti da esposizione ad UV), espressamente indicati nel testo di legge e riportati in Tabella 3, recependo la Direttiva Europea 2006/25/UE Radiazioni Ottiche Artificiali”.
Si rimanda alla lettura integrale del documento che riporta ulteriori informazioni sia sui valori limite fissati dalla vigente normativa, sia sulle modalità d’uso delle eventuali lampade germicide, anche con riferimento al loro utilizzo negli ambienti ospedalieri. E si ricorda che la manutenzione di tali apparati “è estremamente importante ai fini dell’efficacia e della sicurezza. In caso di rottura della lampada germicida a mercurio è necessario ventilare l’ambiente ed evitare qualsiasi contaminazione per contatto ed inalazione del vapore del mercurio contenuto nella lampada, che è altamente tossico. Dovrà essere predisposta una procedura di rimozione in sicurezza dei frammenti della lampada, secondo quanto indicato nel manuale di istruzioni fornito dal costruttore”.
Il trattamento di sanificazione mediante cloro attivo
Un altro trattamento di sanificazione presentato, in relazione all’emergenza COVID-19, riguarda poi l’uso del cloro attivo.
Si indica che “il cloro attivo generato in situ dal cloruro di sodio per elettrolisi è un principio attivo, attualmente in revisione per l’utilizzo come biocida per diverse applicazioni, inclusa la disinfezione delle superfici. Sebbene la valutazione non sia stata completata, sono già disponibili indicazioni non definitive in merito a efficacia, impatto ambientale e effetti per la salute umana”.
Si indica che il “cloro attivo” – una miscela di “tre specie di cloro disponibile che si formano in soluzione acquosa” – ha attività battericida, fungicida, lievicida, sporicida e virucida ed agisce mediante una modalità di azione ossidante non specifica. Il meccanismo d’azione non specifico del cloro attivo limita il verificarsi di fenomeni di resistenza nei microorganismi. In particolare per quanto riguarda i virus, è stata descritta l’efficacia contro il virus della bronchite infettiva, l’adenovirus di tipo 5, l’HIV, il virus dell’influenza A (H1N1), orthopoxvirus e poliovirus”.
Relativamente agli effetti sulla salute umana, si sottolinea “un rischio non accettabile a seguito di inalazione da parte di utilizzatori professionali durante la disinfezione di grandi superfici, laddove sia prevista una fase di applicazione del prodotto sulle superfici e una successiva pulitura manuale (‘con straccio’). Per questo motivo, se ne sconsiglia lo sversamento diretto sulle superfici. Inoltre, poiché il prodotto può causare irritazione cutanea, va limitato l’utilizzo al solo personale addestrato provvisto di guanti e altri dispositivi di protezione individuale (DPI)”.
E dunque il trattamento con cloro attivo generato in situ “può essere utilizzato in accordo con le limitazioni previste per la tutela dei lavoratori e della salute umana, quale sanitizzante per applicazioni su superfici e per condotte d’acqua idrosanitaria”. E a causa dell’elevata instabilità del principio attivo, “non è consigliato l’utilizzo del prodotto igienizzante al di fuori (non in diretta connessione con la macchina generatrice) del sistema di produzione in situ, ad esempio mediante trasferimento della soluzione ottenuta in appositi flaconi. Nello specifico, il trasferimento in flaconi da parte dell’utilizzatore finale potrebbe comportare un uso improprio con rischio di esposizione e/o intossicazione, qualora venissero utilizzati flaconi anonimi non correttamente etichettati”.
Il trattamento di sanificazione mediante perossido di idrogeno
L’ultimo trattamento su cui ci si sofferma, riguarda l’utilizzo del perossido di idrogeno, un principio attivo che (Competent Authority Report presso ECHA – Agenzia europea per le sostanze chimiche) “è efficace contro numerosi microorganismi (batteri, lieviti, funghi e virus)” e di cui si considera l’applicazione mediante vaporizzazione/aerosolizzazione.
Si segnala che il meccanismo d’azione del perossido d’idrogeno “è legato alle sue proprietà ossidanti e alla denaturazione dei componenti essenziali di microrganismi quali membrane lipidiche, proteine ed acidi nucleici. L’attività antimicrobica scaturisce infatti dalla formazione di potenti ossidanti, quali i radicali idrossilici e i ‘singlet’ dell’ossigeno. Tali specie reattive causano danni irreversibili ai componenti cellulari e al DNA”.
A seconda del metodo di applicazione il perossido di idrogeno, che è commercialmente conosciuto anche come “acqua ossigenata”, può avere molteplici utilizzi.
Si indica che esiste “un tipico processo di decontaminazione basato su perossido d’idrogeno sotto forma di gas plasma con il quale un tasso prestabilito di perossido di idrogeno viene vaporizzato e iniettato in una camera di decontaminazione. L’obiettivo è quello di favorire il più rapidamente possibile la formazione di un film sottile di perossido di idrogeno sulle superfici esposte. Una volta erogata la quantità necessaria di perossido di idrogeno, si passa alla fase di aerazione dove il vapore di perossido di idrogeno viene convertito cataliticamente in ossigeno e acqua. Tale applicazione è soprattutto utilizzata per sterilizzare componenti elettroniche e dispositivi medici (DM) riutilizzabili termolabili ma è un processo spazialmente limitato, in quanto deve essere effettuato in autoclave”.
Inoltre per la disinfezione delle superfici/ambienti il perossido d’idrogeno “può essere applicato mediante aerosol o vapore. La diffusione mediante aerosol, con apparecchiature in grado di produrre particelle nell’ordine di 0,3-0,5 μm, ne consente una diffusione uniforme nell’ambiente”.
Si segnala poi che in merito alla pericolosità, il perossido di idrogeno “è classificato in modo armonizzato secondo il CLP31 come: liquido comburente di categoria 1 [Ox. Liq. 1 – ‘può provocare un incendio o un’esplosione (forte ossidante)]’; corrosivo per la pelle di categoria 1 (Skin. Corr. 1A – ‘provoca gravi ustioni cutanee e gravi lesioni oculari’) e nocivo per ingestione e per inalazione di categoria 4 (Acute Tox. 4 – ‘nocivo se ingerito’ e ‘nocivo se inalato’)”.
Considerando dunque la classificazione del principio attivo e il metodo di applicazione, “l’utilizzo di perossido d’idrogeno vaporizzato/aerosolizzato è ristretto ai soli operatori professionali. Per i trattamenti andranno pertanto osservate le precauzioni del caso (DL.vo 81/2008) ed è inoltre necessario rispettare i tempi per l’accesso ai locali e i tempi di decadimento”.
Fonte: Punto Sicuro